LA GUERRA DI TROIA è il luogo del conflitto interiore,
dove la guerra delle parti si risolve nel linguaggio.
Così i rapsodi,
corpo unitario che non ebbe bisogno di vedere quel che accadde poiché accadde in loro,
poterono inventare la lingua,
alta quanto alta è la posta in gioco,
e sovrapporla ai fatti, già accaduti.
La loro narrazione,
intrisa dal mito
e
dalla sua necessità fondata sulla spinta a capirli
e
a rappresentarli per alimentare la nostra memoria
e
costruire la nostra identità,
è diventata il verbo arcaico,
quello che precede non altri fatti,
ma altre parole,
a quelle parole epiche ed eroiche sovrapposte.
Dunque in principio non è il verbo,
ma l’azione:
e qui,
in questa Guerra di Troia che emerge dalla contemporaneità
come l’arcaico che ci sostiene e che ad esso si sovrappone,
l’atto, il gesto, il fatto architettonico e pittorico
sono conciliati nell’azione creativa:
precedono la parola e la attendono.
Qui
il conflitto tra le nostre parti può conciliarsi,
qui
avviene quello che costantemente inseguiamo nel nostro quotidiano attraversare i mari
e
le terre sconosciute della nostra giornata:
amore guerreggiato,
guerra rispettosa,
parola che contiene l’emozione del vedere.
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