Regista e architetto scenografo. Una “strana coppia”? No, è la perfetta fusione di due costruttori di strutture primordiali
Andrea Bisicchia
Lo spazio teatrale ha tanti segreti che, spesso, non intendono essere svelati da chi lo utilizza per creare uno spettacolo, nel senso che esso appartiene al nostro arcano, nella sua forma immateriale. Durante il periodo più volte definito “aureo”, si sono affermati degli accoppiamenti tra registi e scenografi, come Strehler-Frigerio-Damiani, Squarzina-Padovani, Ronconi-Aulenti, Enriquez-Luzzati, Castri-Balò, Missiroli-Job, Shammah-Fercioni, che hanno rivoluzionato il linguaggio della scena. Costoro non utilizzavano maxischermi trasparenti, tecnologie Ledwall, con i loro effetti visivi, computer trascendentali, eppure realizzavano delle vere e proprie meraviglie sul palcoscenico. In verità, si notava tanto studio e nessuna improvvisazione. C’era anche Svoboda con la sua “Lanterna magica”, con le sue teorizzazioni su Forma-Luce-Movimento, riprese soprattutto dall’avanguardia romana, quella delle cantine, per intenderci. Alcuni degli scenografi citati erano anche architetti.
Queste annotazioni sono da considerarsi un preambolo per capire l’unica accoppiata del terzo millennio che ha inventato un proprio linguaggio scenico, facilmente riconoscibile, si tratta di Emma Dante e Carmine Maringola, a cui Vittorio Fiore ha dedicato un volume, edito da Lettera Ventidue: “Carmine Maringola, scenografo/attore. La scena recitante per Emma Dante”, con contributi di Anna Barsotti e Simona Scattina.
Si tratta di un volume prezioso per chi volesse meglio approfondire il lavoro di questi due artisti che non hanno eguale nel teatro contemporaneo proprio per la maniera con cui costruiscono le loro macchine sceniche, per nulla tecnologiche, bensì di alto artigianato. Per questa coppia, Anna Barsotti ha parlato di “fusione calda”, di “processi ossimorici”, di veri e propri “costruttori di spazi” e di “strutture primordiali”. Vittorio Fiore, che è architetto e docente di Tecnologia dell’Architettura presso l’Università di Catania, a proposito di Maringola scenografo/attore, ne ricorda la laurea in architettura che gli ha permesso di far convivere alcune “sinergie” compositive con le architetture di vecchi contesti urbani dell’Italia meridionale, tra Palermo e Napoli, oltre che con le arti performative. Ricorda i suoi rapporti con i “Collettivi”, con i “Centri sociali”, con i Performer di strada, oltre che le capacità di mettere la sua formazione di architetto al servizio dello spazio scenico, cosa che gli ha permesso la creazione di vere partiture scenografiche funzionali a quelle del movimento e della recitazione.
Tutto ha inizio con “Cani di bancata” (2010), quando prende l’avvio il sodalizio con Emma Dante, quando, cioè, lo spazio nudo delle messinscene precedenti della Dante si arricchisce di una nuova visionarietà e di un nuovo immaginario non molto diverso da quello della regista ed è continuato con le messinscene di importanti opere liriche.
Insieme hanno dato vita a quella “scena recitante”, sottotitolo del volume, che consiste in macchine sceniche che evidenziano una valenza tipicamente drammaturgica, grazie anche al supporto di una oggettistica complementare all’ideazione scenografica.
Spetterà a Simona Scattina inserire il suo intervento tra quello della Barsotti e quello di Fiore, perché più attento al percorso di attore di Maringola, ben diverso da quello delle Accademie, essendo caratterizzato da una “trasversalità multidisciplinare”, che richiede all’attore non più l’arte della recitazione, essendo, il suo stare in scena, un elemento funzionale alla recitazione stessa. La Scattina ricorda come la formazione attoriale di Maringola abbia certi antecedenti nei suoi interessi per il Living e per Kantor e nella predilezione per l’attività performativa che ben si adatta alla teatralità della Dante, le cui preferenze sono per la recitazione fisica, costruita sui corpi e non sulla perfetta dizione dell’attore, dato che, ciò che interessa ad entrambi, è il “principio”, ovvero quanto c’è di arcaico nel nostro agire.
Per fare un esempio, il “Macbeth” di Verdi, nella messinscena di Dante-Maringola (2017) è tutto costruito su elementi simbolici e visionari, vedi il lenzuolo insanguinato del preludio, il banchetto che richiama i pantocratori bizantini, la foresta formata da trenta pali di fichidindia, le grate a ventaglio, l’immagine di Duncano come un Cristo Patiens, il sonnambulismo della Lady attorno a tanti lettini coperti da bianche lenzuola, i movimenti bacchici delle streghe, tutto il contrario della messinscena del “Macbeth” di Livermore , che ha inaugurato il Teatro alla Scala, costruito su effetti scenografici, sul gigantismo, ottimamente evidenziato dalla gigantografia del viso di Banco al posto del fantasma, oltre che dagli ampi salotti novecenteschi a cui si accede tramite un ascensore dal forte impatto allegorico, perché allude al salire e scendere del potere. L’esempio è sufficiente per dimostrare come Verdi, nostro contemporaneo, lo possa essere utilizzando sia la ricerca antropologica sia quella tecnologica.
Il volume è corredato da una ricca iconografia che riguarda, soprattutto, le messinscene delle opere liriche, con degli apparati lucidamente esplicativi.
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